Giovanni Verga Riassunto: vita, opere e pensiero

Concetto impersonalità, eclissi autore, straniamento rovesciato, vita dei campi, rosso malpelo, la roba, ciclo dei vinti, i malavoglia, Mastro don Gesualdo

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    Giovanni Verga
    Verga illustrato in modo sintetico


    Nacque a Catania nel 1840 da una famiglia di agiati proprietari terrieri, compì i primi studi presso maestri privati, soprattutto con Antonino Abate, da cui assorbì il fervente patriottismo e il gusto letterario romantico. I suoi studi superiori non furono regolari, s’iscrisse alla facoltà di Legge a Catania, ma non terminò i corsi e si dedicò al giornalismo politico; I testi su cui forma il suo gusto sono gli scrittori francesi moderni. Nel 1865 Verga lascia la provincia e si reca a Firenze, consapevole del fatto che per divenire scrittore autentico doveva liberarsi dai limiti della sua cultura provinciale e venire a contatto con la vera società letteraria italiana. Nel 1872 si trasferisce a Milano dove entra in contatto con gli ambienti della Scapigliatura e poco dopo avviene la svolta capitale verso il Verismo con la pubblicazione di vari racconti. Le sue posizioni politiche si fanno sempre più chiuse e conservatrici, allo scoppio della Prima guerra mondiale è fervente interventista e nel dopoguerra si schiera sulle posizioni dei nazionalisti. Muore nel gennaio del 1922, l’anno della salita al potere del fascismo. Il nuovo metodo narrativo dello scrittore si basa sul concetto di impersonalità. Secondo la sua visione, non basta che ciò che viene raccontato sia reale e documentato, deve anche porre il lettore “faccia a faccia con il fatto nudo e schietto”; per questo lo scrittore deve “eclissarsi”, cioè non deve comparire nel narrato con reazioni soggettive, riflessioni o spiegazioni. Deve mettersi nella pelle dei personaggi e vedere le cose con i loro occhi tanto che l’opera deve sembrare essersi fatta “da sé”. Il lettore deve essere introdotto nel mezzo degli avvenimenti, senza che nessuno gli spieghi gli antefatti e gli tracci un profilo dei personaggi, la loro storia o il loro carattere. Nelle opere di Verga l’autore si “eclissa”, a raccontare i fatti non è il narratore tradizionale; il punto di vista dello scrittore non si avverte mai, la “voce” che racconta si mimetizza nei personaggi stessi, adottando il loro modo di pensare e di sentire, usando il loro stesso modo di esprimersi, ciò viene chiamato “artificio della regressione”. Con il termine straniamento, si vuole indicare una cosa “normale”, secondo la scala di valori universalmente accettata e partecipata dal lettore che finisce per apparire “strana”; questo tipo di straniamento compare quando sono in scena personaggi “ideali” (positivi). Quando sono in scena i loro antagonisti, si verifica una forma di straniamento rovesciato: il loro comportamento ottuso e crudele, invece di apparire nella sua vera luce, viene presentato come se fosse normale, degno di approvazione; ciò che è “strano”, appare “normale”.
    Verga e Zola a confronto.
    Verga proviene da una realtà arretrata e statica del Meridione d’Italia, secondo lui la società è regolata da rapporti sopraffazioni immutabili (prepotenza che non cambia). La letteratura ha una funzione conoscitiva, ma non può modificare la realtà. L’impersonalità è intesa come l’eclissi del narratore, che non deve esprimere giudizi e non deve dare spiegazioni.
    Zola proviene da una realtà dinamica della Francia, dove si registra un forte sviluppo economico, secondo lui la società è regolata da leggi spiegabili scientificamente. La letteratura ha una funzione conoscitiva e la conoscenza può migliorare la società. L’impersonalità è intesa come distacco scientifico della materia analizzata; il narratore commenta le vicende.
    Vita dei campi è una raccolta di racconti in cui spiccano figure caratteristiche della vita contadina siciliana e viene applicata la tecnica narrativa dell’impersonalità (eclissi dell’autore). In Verga, in questo periodo, è ancora in atto una contraddizione tra tendenze romantiche della sua formazione e tendenze veristiche che lo inducono a studiare “scientificamente” le leggi e a riconoscere che anche il mondo rurale è dominato dalla stessa legge della lotta per la vita che regola la società contadina.
    Rosso Malpelo: la vicenda narra di un ragazzo abituato a lavorare in miniera, con il padre; tutti lo maltrattano, perfino la madre e la sorella, l’unico che si prende cura di lui è il padre. Un giorno Misciu Bestia (il padre) accetta l'offerta del suo padrone di lavorare all'abbattimento di un pilastro ormai giudicato inutile nella cava. Mettendo a rischio la propria vita (gli altri lavoratori si erano rifiutati di scavare) egli è spinto ad accettare dal disperato bisogno di soldi. Ma una sera, mentre Misciu scava, quel pilastro gli cade addosso. Il figlio, nella disperazione e nel panico, inizia a scavare nel cumulo roccioso fino a spezzarsi le unghie. E chiede aiuto disperatamente ma, quando anche gli altri accorrono, ormai è troppo tardi: Mastro Misciu è già morto.Dopo la morte del padre, Malpelo diventa ancora più scorbutico agli occhi degli altri e riprende a lavorare nella galleria dov'era morto il padre. Qualche tempo dopo, alla cava viene a lavorare un ragazzino. Per colpa del femore lussato, da operaio qual era prima, il ragazzino è stato costretto ad abbandonare il suo lavoro. Il ragazzo, soprannominato "Ranocchio viene subito adottato (e preso di mira) da Malpelo. Egli in verità, picchiandolo e insultandolo, cerca di stimolare in lui lo spirito di reazione. Più Ranocchio non si difende, più lui continua a tentare di provocarlo: vuole che impari a reagire e ad affrontare quella vita che Malpelo conosce come difficile e continua sfida. In realtà, Malpelo compie anche atti di gentilezza nei suoi confronti. Spesso infatti, per lui, egli si priva di parte della sua razione di cibo oppure lo aiuta nei lavori più pesanti. Non molto tempo più tardi Ranocchio, che da un po' di tempo si era ammalato di tisi, muore all'improvviso. Malpelo, rimasto solo (la madre si è rimaritata, la sorella è andata a vivere in un altro quartiere) scomparirà nella cava. Gli era stato affidato il compito, che lui aveva accettato, di esplorare una galleria ancora sconosciuta. Nessuno si sarebbe assunto un compito così pericoloso ma lui, sapendo che ormai non gli è rimasto più niente, accetta e parte. Preso del pane, del vino, gli attrezzi e i vestiti di suo padre, si addentra in quella galleria e non ne uscirà mai più. Morto anche lui, ha come vendetta il potere di far paura ai lavoratori della cava che ancora temono di vederselo spuntare da un momento all'altro con i suoi "occhiacci grigi e i capelli rossi".
    Fantasticheria: Si narra della giornata di una dama, che, colpita da Aci-Trezza e dal suo paesaggio, decide di fermarvisi un mese in villeggiatura. Dopo un solo giorno però capisce che la vita nel paesino siciliano scorre monotona e ripetitiva e decide d ripartire. All'ottica della grande dama, che visita da turista la marina catanese, si contrappone quella dei poveri abitati di Aci-Trezza che vi abitano. L'autore dichiara che solo assumendo il punto di vista di questi ultimi sarà possibile capirne la vita.
    La roba: da Novelle Rusticane, la vicenda narra di un contadino siciliano di umili origini di nome Mazzarò, dopo aver lavorato sodo per un lungo periodo della sua vita alle dipendenze di un padrone, riuscì grazie alla sua forza di volontà e avidità ad accumulare una ricchezza considerevole; è descritto come un omiciattolo con la pancia grassa che all’apparenza non valeva niente ma che con ingegno e astuzia era riuscito a diventare padrone di molte terre, rispettato da tutto il paese, di carattere umile e gran lavoratore, era famoso, oltre che per la sua ricchezza, per la sua avidità, per lui i soldi non erano un mezzo per migliorare la propria condizione di vita, ma solamente un continuo accumulare di terre e ricchezze senza godersele; infatti, nonostante fosse ricchissimo, mangiava poco, (probabilmente meno dei contadini alle proprie dipendenze) e, inoltre per non spendere troppi soldi non aveva nessun vizio ne svago. Mazzarò era così attaccato alla sua roba, perché si ricordava quando negli anni passati doveva lavorare duramente a volte fino a 14 ore al giorno senza smettere, con la schiena curva, in qualsiasi condizione climatica quindi per lui ora era un’esigenza normale accumulare ricchezze su ricchezze, senza mai riposare. L’unico problema di Mazzarò era quello di non avere nulla oltre alla sua roba, nessun parente né niente. Quando si stava per avvicinare la vecchiaia, era diventato così matto da uccidere le sue bestie urlando “Oh roba mia vientene con me”.
    Il ciclo dei Vinti, è un ciclo di romanzi che riprende il modello di Zola, con la differenza di porre al centro del suo ciclo la volontà di tracciare un quadro sociale, passando in rassegna tutte le classi. Criterio unificante è il principio della lotta per la sopravvivenza, che lo scrittore ricava dalle teorie di Darwin: tutta la società è dominata da conflitti d’interesse, il più forte trionfa, schiacciando i più deboli. Non intende però, soffermarsi sui vincitori di questa guerra universale, ma sceglie come oggetto della sua narrazione i “vinti”. Al ciclo viene premessa una prefazione con gli intenti generali dello scrittore: nel primo romanzo, I Malavoglia, si tratta della semplice lotta per bisogni materiali. Nei romanzi successivi sarà analizzata la “ricerca del meglio” nel suo progressivo elevarsi attraverso le classi sociali. Anche lo stile e il linguaggio devono modificarsi gradatamente in questa scala e ad ogni tappa devono avere un proprio carattere, adatto al soggetto.
    I Malavoglia: nel paese Aci Trezza vive la famiglia Toscano (I Malavoglia). Il patriarca è Padron 'Ntoni, vedovo, che vive presso la casa del nespolo insieme al figlio Bastiano, detto Bastianazzo, il quale è sposato con Maruzza (la Longa). Bastiano ha cinque figli: 'Ntoni, Luca, Filomena (detta Mena o Sant'Agata), Alessio (detto Alessi) e Rosalia (detta Lia). La famiglia vive di pesca fino a quando la partenza del giovane ‘Ntoni per il servizio militare li spinge ad acquistare una partita di lupini da Zio Crocifisso (usuraio del paese). La morte di Bastianazzo avvia la famiglia alla catastrofe. Da questo momento in poi disgrazie si sommano a disgrazie: la casa del nespolo fu venduta per ripagare i debiti a Zio Crocifisso, Luca muore nella battaglia navale, Maruzza muore di colera, ‘Ntoni finisce in carcere e padron ‘Ntoni spezzato da tante sventure, muore miseramente in ospedale. Sembra avviarsi la rinascita della famiglia quando Alessi, riscatta la casa del nespolo.
    Prefazione, I “vinti” e la “fiumana del progresso” (prefazione): il primo paragrafo, dedicato specificatamente ai Malavoglia, indica con chiarezza il tema di fondo dell’opera: il bisogno di migliorare le proprie condizioni di vita, indizio dell’affacciarsi della modernità nel sistema arcaico. Si pone poi il processo di trasformazione della realtà contemporanea ad un’organizzazione economica e sociale moderna. Tocca poi rapidamente il problema formale, poiché la forma è un fattore indispensabile per l’osservazione esatta e per la verità. Verga va contro il progresso e si concentra sui “vinti”, coloro che sono stati schiacciati dalle leggi dello sviluppo moderno. Nella chiusura della prefazione, si rivela il pessimismo dello scrittore che dà origine alla poetica dell’impersonalità e alla tecnica negativa della regressione.
    Il mondo arcaico e l’irruzione nella storia (primo capitolo): La famiglia dei Malavoglia appartiene ad un ceto sociale basso, formata da pescatori che vivono alla giornata grazie al proprio lavoro. Il loro equilibrio familiare si rompe a causa di motivi storico-sociali, infatti la vicenda è ambientata negli anni post-unitari, più specificamente nel 1863. Erano anni in cui il neo-Stato necessitava di giovani soldati in cui divenne obbligatorio il servizio di leva. A causa di ciò la famiglia dei Malavoglia è costretta ad una "sottrazione di braccia" poiché il giovane ‘Ntoni fu costretto ad allontanarsi da loro. Questo avvenimento è considerato come una vera e propria rottura dell'equilibrio dato che mette in crisi la famiglia causando loro una declassazione che provoca loro un passaggio da proprietari di una casa e una barca a nullafacenti costretti ad “andare alla giornata” per vivere. L'attributo "nullafacenti" è dovuto, anzi causato, soprattutto da persone del loro stesso villaggio che non ammiravano il gesto di padron ‘Ntoni di vendere i suoi averi per salvare la sua famiglia dai debiti.
    I Malavoglia e la comunità del villaggio: valori ideali e interesse economico (capitolo quarto): Ormai Mariuzza è venuta a conoscenza della disgrazia per la quale la barca è naufragata, i lupini sono stati ingoiati dal mare e soprattutto Bastianazzo è annegato. Padron 'Ntoni deve provvedere a saldare il debito dei lupini; intorno alla sua disgrazia si concentra l'attenzione degli abitanti del villaggio: chi per curiosità, chi per compassione, chi per egoismo (come lo zio Crocifisso, che vuole I soldi dei lupini). Durante la commemorazione del defunto Bastianazzo alcuni paesani cercano di trovare una soluzione al nuovo problema economico che la famiglia smembrata deve affrontare; le amiche dell'affranta Mariuzza, che non riesce più a dire e a fare nulla (nemmeno a dare da mangiare ai suoi figli), cercano invece di confortarla, come la cugina Anna, che bada ai piccini.
    Mastro don Gesualdo: la vicenda è ambientata a Vizzini; Gesualdo Motta è riuscito dove ‘Ntoni aveva fallito: grazie al suo fiuto per gli affari ed a una vita piena di sacrifici e rinunce, da modesto muratore è diventato il “re” del mattone e ora vuole dettare i prezzi del mercato e controllare l’intera produzione agricola. Sposa Bianca Trao, pur sapendola sul lastrico e incinta di un altro. Anche per lui inizia la caduta: logorato dalla guerra contro parenti e compaesani (senza rispetto dalla moglie e dalla figlia Isabella), muore di cancro abbandonato a sé stesso tra l’indifferenza generale, e la sua “roba” viene dilapidata dal genero, il duca de Leyra.
    La morte di mastro-don Gesualdo (capitolo quinto): Gesualdo viene messo nella stanza degli ospiti nel grande palazzo del genero ed osserva lo sperpero della ricchezza e dei suoi sacrifici. Descrive di come la servitù all’uscita di suo genero, scatenasse chiasso e confusione. La figlia, Isabella, provava una sorta di disprezzo contro il padre, se ne fregava della sua malattia. Gesualdo stava per confessarle il segreto di non essere realmente il padre, ma Isabella non lo faceva parlare. Passarono giorni e, le condizioni dell’uomo peggiorarono, fino ad arrivare al punto di morte. Gesualdo è lasciato solo nel momento dell’agonia e della morte, sopportato più che accudito da un servitore malevolo. Non viene neanche ascoltato quando chiede di avere lì la figlia per confessarle, finalmente, il segreto. La conclusione del romanzo è condotta dal punto di vista di don Leopoldo (il servitore) da cui traspare l’insofferenza per l’incarico che gli è stato assegnato: accudire un uomo che ritiene un suo pari se non addirittura un inferiore!


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