Luigi Pirandello Riassunto: vita, opere e pensiero

Nessun nome, uno nessuno e centomila, il fu mattia pascal, trappola, il treno ha fischiato, umorismo, maschera identità forma concezione vitalistica

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    Luigi Pirandello
    Pirandello illustrato in modo sintetico


    Pirandello nacque nel 1867 nelle campagne di Girgenti. L’agiatezza economica della famiglia gli consentì di studiare a Palermo, Roma e a Bonn, dove si laureò nel 1891. Andava intanto pubblicando i primi volumi diversi: Mal Giocando e Pasqua di Gea. A Roma conobbe Luigi Capuana, che ne incoraggiò l'ambizione letteraria. Nel 1898 fondo con alcuni amici la rivista "aria", dove comparve il suo primo dramma, l'Epilogo. Pubblicò anche alcune novelle, raccolte nel 1894 nel volume "Amori senza amore", e due raccolte di poesie, Elegie Renane e Zampogna. Dal 1897 si dedicò all'insegnamento di lingua e letteratura italiana presso l'Istituto superiore di magistero. Nel 1903 l'allagamento di una zolfara provocò la rovina economica della famiglia. La moglie fu colpita da un esaurimento nervoso che degenerò in paranoia e dovette essere ricoverata in una clinica. Luigi fu costretto ad un lavoro febbrile per provvedere al sostentamento della famiglia: nel giro di pochi anni pubblicò diversi romanzi e molte raccolte di novelle. Pubblicò inoltre I due saggi: arte e scienza e l'umorismo, mentre nell'anno seguente iniziò a collaborare con il “Corriere della Sera”. La fame internazionale, che gli valse nel 1934 il premio Nobel, è legata al suo teatro. Si dedicò a tempo pieno al teatro a partire dal 1916, mettendo in scena capolavori come: così è se vi pare, il berretto a sonagli, sei personaggi in cerca d'autore. Al 1924 datano sia l'adesione al fascismo sia la costituzione della campagna del teatro dell'arte, che Pirandello diresse fra il 1925 e il 1928 affrontando diverse tournée all'estero per curare personalmente l'allestimento dei propri lavori. Morì infine nel 1936, lasciando irrealizzato l'ambizioso progetto di creare e dirigere un teatro di Stato. Per Pirandello, secondo una concezione vitalistica, la realtà è caos: trasformazione continua, flusso vitale, perenne movimento. Ogni tentativo di fissarla, darle una forma e un senso, si rivela illusorio. Qualunque conoscenza assoluta e oggettiva su di sé e sul mondo è preclusa all'uomo, che deve accontentarsi di opinioni soggettive, notevoli, anche se in perenne divenire. Il concetto di identità personale: attribuirsene una o attribuirla agli altri, presume la propria conoscenza o la conoscenza degli altri. La personalità di ciascuno è sfuggente, in perpetua metamorfosi, proprio come il corpo. Qualunque tentativo di mettere ordine nella propria vita significa soffocarla, richiuderla nella prigione di una forma, ciò crea appunto il contrasto tra vita e forma. Ciascuna di queste “forme”, è una maschera che noi stessi ci imponiamo o che c’impone la società. Esse sono sentite come “trappole” in cui l’individuo si dibatte, lottando invano per liberarsene. L’istituto in cui si manifesta per eccellenza, è la famiglia, l’altra è quella economica con lavori frustranti e monotoni. Secondo Pirandello il solo modo per recuperare la propria identità è la follia, tema centrale in molte: dire sempre la verità, la nuda, cruda e tagliente verità, infischiandosene dei riguardi, delle maniere, delle ipocrisie e delle convenzioni sociali. Questo comportamento porterà presto all'isolamento da parte della società e, agli occhi degli altri, alla pazzia. Secondo il poeta inoltre, ognuno ha la sua verità che nasce dal modo soggettivo di vedere le cose: questo relativismo conoscitivo porterà ad un’inevitabile incomunicabilità fra gli uomini che non possono intendersi poiché ognuno ha diversi punti di vista. L’umorismo è un saggio diviso in due parti: nella prima si delimita l’oggetto, nella seconda si passano in rassegna esempi tratti da diversi autori e opere. L’umorismo presuppone un’azione intenzionale, una volontà in atto; l’azione istintiva obbedisce ad una legge di natura, pertanto non è mai umoristica. Inoltre è distinto dal comico: quest’ultimo ha come solo scopo suscitare il riso, che è un “avvertimento del contrario” e nasce quando per esempio (vecchia signora vestita in modo giovanile poiché aveva un marito più giovane). Per passare dal comico all’umoristico deve subentrare la riflessione, nel tentativo di intuire le ragioni che stanno alla base del comportamento ridicolo; si raggiunge così un “sentimento del contrario”, che rende amaro il riso a cui si mescolano la commozione e la compassione. Pirandello assegna alla riflessione una parte essenziale nella creazione di un’opera d’arte umoristica: è solo grazie ad essa, infatti, che dall’ “avvertimento del contrario” si passa al “sentimento del contrario”. Il ruolo centrale della riflessione comporta uno sdoppiamento nell’atto della concezione artistica, per cui il vero umorista è al tempo stesso poeta e critico.
    Il treno ha fischiato: Il protagonista, Belluca, un contabile mansueto viene sottoposto a pressioni sia nell'ambito familiare sia lavorativo. Al lavoro, infatti, è vittima dei colleghi che cercano di provocare in lui reazioni violente, visto che è sempre controllato. In famiglia, deve mantenere la moglie, la suocera e la sorella della suocera - tutte e tre cieche - più le due figlie vedove e sette nipoti. Belluca per mantenere la famiglia e poter soddisfare le esigenze delle donne è costretto a intraprendere un secondo lavoro, il copista di documenti, nelle ore notturne. Una sera, dopo aver sentito il fischio di un treno, che precedentemente non aveva mai notato, si ribella alle angherie del capoufficio. Con queste reazioni, fuori dagli schemi della società e dal suo modo di essere, i suoi colleghi lo ritengono pazzo e lo fanno rinchiudere direttamente nell'ospizio. Solo un vicino di casa si rende effettivamente conto delle motivazioni che l'hanno spinto a tale gesto ed è l'unico a capire che il protagonista non è diventato pazzo, bensì il suo comportamento è stato una semplice reazione alla situazione diventata ormai insostenibile. Nella novella l'ordine cronologico è invertito. Non si va dalla normalità alla pazzia ma dalla pazzia dobbiamo risalire alle cause che l'hanno determinata che affondano nella probabile normalità.
    La trappola: il racconto è organizzato in forma di monologo interiore di un uomo, Fabrizio, che sta parlando con un interlocutore immaginario. Inizia raccontando che di notte gli oggetti non dormono ma restano nella stessa posizione che tengono di giorno e, a differenza dell'essere umano che è mortale, gli oggetti rimangono e vengono vissuti da più persone. I vestiti, per esempio, vengono portati da più persone, lo specchio per anni specchierà sempre persone diverse. L'uomo continua parlando della vita che ritiene una trappola da cui non ci si può liberare, infatti per lui la vita non ha alcun senso perché si morirà per forza senza far nulla per evitare la morte. Continua il discorso affermando che anche le donne sono una trappola, infatti seducono gli uomini, ci si accoppiano, e mettono alla luce tanti "piccoli morti" che sono a loro volta in trappola perché appena nati iniziano a morire. Il narratore racconta di essere caduto lui stesso nella trappola di una donna che aiutava suo padre malato, lei non poteva avere figli e così aveva estorto una gravidanza al protagonista e poi era scappata con il marito. Il brano si conclude con Fabrizio che medita perché vorrebbe che suo padre molto malato venisse liberato dalla "trappola" e lui stesso vorrebbe ciò anche per sé.
    Il fu Mattia Pascal narra di un bibliotecario in un paesino della Liguria, che conduce un’esistenza grigia e vuota; per sfuggirla, decide di emigrare segretamente in America, ma, facendo tappa a Montecarlo, tenta la sorte e vince una somma ingente al casinò. Sulla via del ritorno, legge per caso sul giornale la notizia della propria morte: il cadavere di un uomo è stato riconosciuto da sua moglie come Mattia Pascal. Deciso a cogliere l’occasione per cambiare vita, il protagonista assume il nome di Adriano Meis, viaggia in Italia e all’estero e infine si stabilisce a Roma, in casa di Anselmo Paleari e si innamora, ricambiato, di sua figlia. Privo com’è di un passato e di un’identità anagrafica, Adriano Meis purtroppo deve prendere atto di essere persona fittizia, inconsistente, e decide pertanto di “suicidarsi”, inscenando il proprio annegamento nel Tevere. Tornato a Miragno, non può però riprendere la vita di prima: sua moglie si è risposata e, il posto di bibliotecario è ormai occupato da un altro. Non gli rimane così che scrivere le proprie memorie e fare visita alla propria tomba, rassegnandosi a non esistere più se non come il fu Mattia Pascal.
    Cambio treno (capitolo sette): Mattia è in treno, diretto verso casa, incerto sul da farsi. Quali prospettive davanti a lui? Riscattare il mulino e fare il mugnaio? Immagina la scena del ricongiungimento con la moglie e la suocera: entrambe manifestano inizialmente indifferenza, ma dopo un po’ la suocera ricomincia a sputar bile e a rinfacciare al genero il posto di bibliotecario perso. Mattia vede sé stesso mentre estrae la fortuna guadagnata al casinò, conta le banconote davanti agli occhi esterrefatti delle due donne e poi se ne va. Pensa a tutti i debiti che dovrà saldare una volta arrivato a casa. Il treno si ferma, Mattia scende e compra un giornale: rimane allibito quando legge la notizia della sua morte. A Miragno, il giorno prima è stato ripescato il corpo putrefatto di un uomo che è stato riconosciuto come quello di Mattia Pascal; non crede ai suoi occhi: come è possibile che moglie e suocera abbiano riconosciuto rispettivamente marito e genero nel corpo di un estraneo? Ma improvvisamente Mattia ha un’illuminazione “Ero morto, morto, non avevo più debiti, né moglie, né suocera: nessuno! Libero! Libero! Libero!” Mattia rinuncia a risalire sul treno, si procura un altro giornale per rileggere con calma e tranquillità l’articolo. Si sente “ paurosamente sciolto dalla vita, superstite di se stesso, sperduto, in attesa di vivere oltre la (fittizia) morte, senza intravvedere ancora in quale modo.”
    Nell'articolo si parla della “tremenda costernazione e dell’inenarrabile angoscia” che tormenta moglie e suocera” , della “vedova sconsolata che piange il diletto marito”, della “stima dei concittadini”. Mattia prende la sua decisione e si sente sollevato.
    Il fu Mattia Pascal (conclusione del romanzo, capitolo diciotto): Mattia in treno è preso dall'ansia e dalla rabbia. Arrivato a Miragno, si reca di corsa a casa di Pomino. Alla sua vista Pomino, la suocera e Romilda sono terrorizzati e lo guardano come se vedessero un fantasma.
    Mattia scopre che Romilda ha avuto una bambina da Pomino. Segue un’accesa discussione al termine della quale Mattia afferma che non intende ritornare a vivere con la moglie: il matrimonio con Pomino non verrà quindi annullato. Mattia se ne va. Si stabilisce presso la zia Scolastica e riprende il suo lavoro di bibliotecario. A chi gli domanda come si chiami lui risponde:” IO SONO IL FU MATTIA PASCAL”.
    Uno nessuno centomila narra di una banale osservazione della moglie sulla forma del suo naso scatena in Vitangelo Moscarda riflessioni che mettono in crisi il concetto di identità. Resosi conto che gli altri non lo vedono come lui si vede, decide di sfatare la propria nomea di usuraio, ottenendo però il risultato di essere creduto anche pazzo. La situazione precipita quando Anna Rosa, amica della moglie, gli svela il piano dei parenti teso a farlo interdire per impedirgli di dilapidare il patrimonio; allorché l’amica, in preda ad una crisi isterica, a seguito dei ragionamenti di Vitangelo, gli spara ferendolo, egli per difenderla lascia intendere di averla aggredita, guadagnandosi la fama di maniaco sessuale. Lo scandalo viene messo a tacere dal vescovo che convince il protagonista a devolvere i propri beni alla costruzione di un ospizio e a ritirarvisi lui stesso. L’identità che gli altri attribuiscono ad una persona finisce per condizionarne la vita: crea un pregiudizio da cui non ci si può liberare, e se qualcuno cerca di comportarsi diversamente, ottiene solo di passare per pazzo. Vitangelo ha compreso il “gioco” ossia che la pazzia non è una malattia, ma parte integrante della natura umana. Gli uomini non si dividono in pazzi e sani, ma in pazzi inconsapevoli, che non sanno o non vogliono comprendere il gioco della vita, e pazzi consapevoli, che cioè si rendono conto di recitare una parte, giacché l’identità che l’uomo crede di possedere è un goffo tentativo di costringere in una forma il flusso inarrestabile della vita. Nell’uomo, causa di tutti i mali è la coscienza, che dà un nome e un significato alle cose. Unica via d’uscita è rinunciare alla coscienza, esistere senza sapere di esistere, immergendosi nella natura, perdendosi in essa: è questa la scelta finale cui approda Vitangelo Moscarda.
    Nessun nome: la narrazione si apre in un tribunale dove Vitangelo deve deporre la testimonianza a favore di Anna Rosa. Si presenta vestito in modo bizzarro e quando viene interpellato, inizia un lungo discorso sul fatto di non riconoscersi più nel suo cognome. Ha la convinzione che il nome possa essere assegnato solo ai morti poiché sulle epigrafi funerarie si legge il nome. Lui non si sente morto e da tale non riconosce alcun nome. Il suo compito, nell’ospizio, è di rinascere giorno per giorno, reincarnandosi in ogni altra cosa diversa da lui stesso.


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